Non di sera quando la frescura rende più leggeri i pensieri, ma oggi in questo pomeriggio infuocato e onnipotente; adesso all'ombra di una veranda antica, quella dove mia nonna lasciava ad essicare al sole i cuori rossi dei pomidoro. L'orizzonte nel cielo quasi lattiginoso lo guardo con gli occhi a fessura e i versi di Salvatore Quasimodo mi cantano dentro con la stessa musicale ebbrezza di quando li lessi la prima volta e avevo poco meno di diciotto anni:

QUASI UN MADRIGALE
Il girasole piega a occidente
e già precipita il giorno nel suo occhio
in rovina e l'aria dell'estate
s'addensa e già curva le foglie e il fumo
dei cantieri. S'allontana con scorrere
secco di nubi e stridere di fulmini
quest'ultimo gioco del cielo. Ancora,
e da anni, cara, ci ferma il mutarsi
degli alberi stretti dentro la cerchia
dei Navigli. Ma è sempre il nostro giorno
e sempre quel sole che se ne va
con il filo del suo raggio affettuoso.
Non ho più ricordi, non voglio ricordare;
la memoria risale dalla morte,
la vita è senza fine. Ogni giorno è nostro.
Uno si fermerà per sempre,
e tu con me, quando ci sembri tardi.
Qui sull'argine del canale, i piedi
in altalena, come di fanciulli,
guardiamo l'acqua, i primi rami dentro
il suo colore verde che s'oscura.
E l'uomo che in silenzio s'avvicina
non nasconde un coltello fra le mani,
ma un fiore di geranio.
La mia isola era lontana allora: un periodico incontro annuale. Ed io emigrante, giovanissimo ed attento seguivo il corso del sole verso sud e tendevo l'orecchio al suono di una canzone nascosta.
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